Il gioco dell'eternità

di Eduardo Caianiello

Gli amanti giocano all’eternità. Recitano senza posa lo psicodramma dell’amore eterno. Il punto è che questo psicodramma è inevitabile. Se si vuol mostrare infatti e dimostrare che il “vero” amore  non deve trattenere al proprio centro quella eternità,  ci si accorgerà  di opporre un paralogismo (la dimostrazione) ad un paralogismo, quello dell’amore, la cui illusoria conclusività ne è il nocciolo essenziale che lo sostanzia e lo costituisce, e tolta la quale non lo si corregge: lo si annienta.

L’amato assume, e con lui l’amante, che questi lo stia amando come individualità pura. E assume inoltre, ed a ragione, che quegli ami la sua stessa essenza.
L’amante gli dirà, e a lui l’amato, mille cose bellissime su come lui (l’amato) è fatto. “Di te mi piace questo, e questo, e questo... Tu sei...sei...non trovo le parole ma capisci?...hai quel modo di fare che...”.
In questo frammento di discorso amoroso, nel suo tono e nel suo andamento, sono presenti almeno tre elementi:
1. la convinta intenzione, e veritiera per lo più, di stare appercependo l’individualità essenziale  dell’amato.
2. tutto il desiderio  di chi ama di far sentire all’altro che lo vede, e che lo apprezza per quello che quest’ultimo in se stesso è: qualcosa di speciale.
3. Infine, ed è questo quanto di più essenziale, che l’insestessità dell’altro, la sua essenza, non è solo l’oggetto del suo amore, ma la sua stessa causa, la sua causa prima ed essenziale.

Questo terzo punto è il cuore e il nocciolo del gioco dell’eternità, che discende, per un paralogismo, dai punti 1. e 2.
Vediamo.
 

Punto 1. Essenzialismo della differenza specifica (chiara e distinta).

a) Nel frammento si è visto che uno dei due amanti parla di qualità specifiche, di qualia.
Parla degli attributi dell’amato mostrandoli, nella stessa logica delle sue espressioni, come chiari e distinti in sè: “Mi piaci perchè sei vitale, coraggioso...” ecc., oppure: “perchè...perchè...”. Anche quando non si riesce a esprimere, l’amante offre apriori già garantita chiarezza e distinzione. L’assunto del “perchè...” rimanda infatti ad un quid specifico: un qualis determinato in sè nel suo potersi porre come oggetto (per ora difficile da mettere in parole) dell’amore altrui.
b) Questi qualia amati dall’amante sono anche ciò che sostanzia il proprium  dell’amato, proprietà come Eigenschaften (versus Qualitäten). L’aristotelismo dell’assunto è che l’essenza ultima, la sostanza prima dell’amato sia fatta di differenze specifiche, connotazioni in sè chiare e distinte.
 

Punto 2. La retorica della Monade.

Nei toni dell’amante-dichiarante  cade l’accento  invece sulla specialità di chi si ama, mostrata nelle Eigenschaften che ne formano l’Essenza. L’innamorato comincia a declamare i suoi  “Perchè tu sei...tu sei...”, e nei suoi toni risuona l’insistere retorico su quell’ eigen . Queste qualità sono solo tue.
 

Punto 3. Ti amo perché....

Qui si arriva al risultato finale. Il tono di quella dichiarazione aristotelica stabilisce un nesso: “Perchè tu sei...sei...”, significa: io ti amo perchè tu sei così e così. Speciale e irriducibile.
Il nesso istituito dalla dichiarazione propone la (le) qualità oggetto dell’amore come causa  dell’amore.
Con questo, il cerchio della teologia tomista dell’amore è perfettamente chiuso.
Comincia il gioco dell’eternità.

Per indagarne la struttura e le regole ritorniamo ai tre punti appena esposti  per individuare i vari errori, i vari inganni subiti dall’amante-dichiarante e dal suo amato.
 

Errore in Punto 1.

Connotazioni  piuttosto che esempi.

Connotazioni
L’amante è un essenzialista in quanto tale, e così l’amato.
L’essenza dal suo canto è fatta apposta per essere acchiappata. Le parole di Platone sono: “mettere le mani su”, acchiappare l’essere.
L’essenzialista è per sua natura qualcuno che vuole afferrare. Anche il linguaggio colloquiale possiede l’espressione “cogliere l’essenza”.

Quando allora l’amante comincia a dichiarare “Perchè tu sei...tu sei...”, lo sforzo interno a questo tono così pregno d’amore è quello di una abbraccio. Di più: l’amante pronuncia queste parole con lo sguardo perso dentro al vuoto, rapito dentro una ricerca che conduce l’attenzione  e la tensione viscerale a trovare il termine anelato, quella parola latitante che si fa sentire ancora solo come forza d’attrazione.
Quella parola dovrà riempir la bocca: sarà mangiata, più che detta.
Le immagini scorrono confuse e silenziose;  rapide nella mente di chi sta cercando il lemma più adeguato. Nel vuoto che ha di fronte, l’amante-dichiarante vuol creare il sembiante che gli manca. Infine, la soddisfazione d’esserci riuscito non avrà il carattere d’un rinvenimento appagato dalla contemplazione: quello  piuttosto di un fagocitare, di un mangiarsi l’amato dentro la parola ora rinvenuta: la frase pronunciata è servita a attrarlo dentro la bocca di chi l’ha pronunciata. Questi ora ha arraffato l’amato in quella rete di attributi che, sola, può rendere l’essenza qualcosa di afferrabile.
Da parte sua l’amato, nel sentirsi còlto con tanta verità, si sta sentendo avvolto e penetrato. Mentre l’amante mangia e ingloba l’altro, afferrato con l’esca e la rete di quell’aggettivare, questi sta compiendo a sua volta la stessa operazione: la parola di quello  è arrivata in fondo: anche lui fagogita colui da cui è mangiato.

La connotazione, l’attributo che inerisce gode di per se stesso dell’universale dell’essenza, e ne compone il quadro come un suo tassello ed una componente di universalità omogenea al tutto e alle altre parti. In questa sua definitezza ed omogeneità riassume in sè, in una sussunzione, il tutto dell’essenza stessa

Pronunciato da solo dall’amante, o insieme a un altro, o ad altri due, o detto solo nei puntini di una sospensione,  l’attributo offre la sensazione calda e definitiva per l’amato d’essere colto in sé, d’essere abbracciato.

Esempi
L’esempio è un’altra cosa. E’ in sè un particolare stagliato sull’orizzonte sconosciuto dell’anima di chi si ama. Offerto come tale: “Tu per esempio fai così e così...”, dona anch’esso il senso d’ essere colti nella propria essenza, come individui puri: ma questo, se si riesce ad esser conseguenti, restando consci che dalla parte sua l’Essenza è più grande e sconosciuta, e non sussume, e non si può afferrare. In un tal caso si capirebbe bene d’essere stati colti in sè, ma senza che si pretenda di saper perchè, e quale sia mai l’oggetto di un tale coglimento. L’amore mostrerebbe così la misteriosità della sua propria origine.
 

Errore in Punto 2.

Da essenza ad essenziale

Il proprium  mostra l’irriducibilità: “Tu sei speciale”. Ho colto la tua essenza in un abbraccio, e mai potrei trovare un altro con la sua stessa essenza.
Qui l’errore che si viene a realizzare è che l’amato innanzitutto pensa l’unicità essenziale della sua  propria anima come essenzialità di questa per l’amante. Il fatto che l’amato si senta speciale e irriducibile lo porta a ritenere di essere insostituibile; inganno che intride chiaramente i toni dell’amante: “dove potrei trovare un altro come te...”. Dichiarazione vera, certo, ma anche ingannatoria, perchè se è profondamente vero che l’individuo-amato sia in quanto tale discreto in assoluto da ogni altra monade ed essenza, non è al contrario vero che l’amante-dichiarante non possa amarne nessun altra. Cosa che si riassume nell’ illusione dell’amato come sconfinamento, ancora, nel dominio logico della sussunzione. Questi ritiene e sente infatti che la sua essenza sia essenziale perchè pensa se stesso come lo si dipinge nel Simposio, nelle parole del mito di Aristofane delle due metà. “Il mio essere intrinsecamente ciò che sono, la mia essenzialità, e il fatto che essa sia in assoluto irriducibile, comporta che solo , solo io possa essere necessario a chi mi ama”. Le due essenze credono che si stabilisca tra di loro un nesso in sè essenziale, come quello che lega in un teorema premesse e conclusioni.
Questo secondo errore si nutre di quello esposto prima (1.). L’intuitività logica e visiva che con il loro essenzialismo amante e amato ritengono connoti l’anima dell’altro e quella propria,  permette questo genere di incastro.
A) Se si pensasse a sè come essenzialità gratuita, esistente nel mondo solo per se stessa;
B) e se inoltre si pensasse a se stessi e all’altro come ad orizzonti oscuri e sconosciuti;
allora non si potrebbero compiere due errori:
a) Non si passerebbe da “essenza” ad “essenziale”: il nesso dell’amore potrebbe percepirsi innecessario nel suo connettere due liberi assoluti, senza il necessitante ed intuitivo incastro che come in un mosaico connette due tasselli, e solo quelli là, tra loro.
b) non si penserebbe di conoscere la logica necessitante dell’incastro, fondata sulla circostritta intuizione delle connotazioni come Eigenschaften.

E allora si sentirebbe quello che non si sente compiendo il terzo errore.
 

Errore in Punto 3.

L’ oggetto dell’amore diventa la sua causa, essenziale ed ultima.

Questo errore deriva con evidenza dagli  errori in 1. e 2.
L’irriducibilità si fa insostituibilità (dal per se al per aliud ). Così l’amato pensa: “lui non può amare che me”, come a dire “io sono necessario e sufficiente per il suo amore, cioè ne sono causa ed essenza. In quanto monade ed essenza, in quanto causa mei, sono divenuto essenza del suo amore”.
 

Perchè quelli appena descritti sono errori e inganni?  Perchè quello dell’eternità è un gioco basato su paralogismi? Perchè è inevitabile, tanto che l’idea di una completa neutralizzazione dell’inganno si basa essa stessa su un paralogismo?
 

La gelosia.

La sola possibilità del sentimento di gelosia, il suo solo esistere come dato fenomenologico, mostra la natura ingannatoria degli assunti nei punti 1., 2., 3.

Dopo avere ascoltato le dichiarazioni dell’amante (“perchè tu sei...tu sei...”), l’amato sente di possedere, come tangibilmente, una propria essenza e una sostanzialità, ma la declina secondo un sentimento di sicura onnipotenza. Questo rafforzamento del sentimento d’essere autofondato, d’esistere in modo distinguibile da tutto il resto delle cose, non lo conduce infatti nella percezione d’essere un assoluto perchè essenziale in sè, e in ciò gratuito.
Sente piuttosto d’essere un assoluto che condiziona secondo determinate proprietà.
Sente che in base a ciò che egli per essenza è, l’amore dell’amante è garantito.
Sente  che la sua essenza è essenziale al mondo. Condizione che abissalmente differisce da quella di una essenza che in se stessa soltanto trova il proprio senso.
Il punto è che l’essenzialità di un’anima a se stessa vuol dire solamente che siamo ciò che siamo, possedendo qualcosa (delle connotazioni) che ci fa discernibili dal resto delle anime.
Da ciò però l’amato vuole  passare a credere che l’interna necessità (coerenza della nostra logica interiore) delle espressioni di noi stessi ci renda necessari per il mondo. Si vuole essere unici non solo per noi stessi, ma anche per qualcun altro: slittamento nel senso di quella “unicità” che cotruisce la sostanza del paralogismo del gioco dell’eternità.
Tutto questo si realizza appieno con il nostro amante che in ciò si trova ad essere, con le sue parole, toni e gesti, lo specchio in cui l’amato legge la sua necessità assoluta.
L’amante giura dentro il suo trasporto che il tuo sguardo è speciale e eccezionale, e i tuoi pensieri, o il tuo modo di parlare. Quando l’amato ci crede fino in fondo, porta dentro di sè un calore, ed una sicurezza che è l’ anti-gelosia : “tanto” un altro come lui l’amante non lo trova.

Poi viene il momento della gelosia.
L’amante è in crisi, per un qualunque, trascurabile o non trascurabile motivo.
L’amato pensa allora a un sostituto, che è un altro lui, ma non altrove: è contro.
Contro come uno specchio che non rimanda la sua propria immagine essenziale, come fino ad allora era successo, bensì quella di un altro. L’amante fino ad allora gli aveva rimandato la sua immagine essenziale. Si è ora voltato, e da un buio mai sospettato prima si mostra la possibilità che l’amante dedichi il suo amore...a qualcun altro.
Si badi, basta la possibilità, che è il primo nutrimento della gelosia. Nasce tipicamente da un raccontino, qualcosa di banale: “Pensa, ieri ci (all’amante e al sospetto amato) ci è successo...”.
Nel “ci” l’amato scopre in un sussulto shockato un mondo, un mondo intero e integralmente buio e sconosciuto. E scopre che da quel mondo estraneo ed infinito  parte uno sguardo estraneo, quello dell’amante che guarda l’amato (solo ora questi se ne sta accorgendo) come un oggetto dentro una visuale, un campo visivo che è molto, infinitamente più ampio dell’amato che, attonito, lo ascolta. L’amato si trova adesso dentro l’orizzonte dell’amante. Trecentosessantagradi di orizzonte, insieme a una infinità di altri oggetti. Uno di questi è l’altro, il deuteragonista di quel “ci”,  che ora può sostituirlo.
In questo pensiero però l’amato scopre un altro mondo ancora: quello suo proprio. Nell’ inaudita idea della sua fungibilità si neutralizza  quell’essenzialità di cui questi credeva di godere nel  cuore dell’amante: è dissolta quell’insostituibilità di ciò che l’amato specificamente ed essenzialmente è.
Subentra adesso nel suo cuore un sentimento opposto a quello che lo animava prima. Si sente impotente, adesso, in modo sostanziale. E’ diventato onnimpotente.
La spina che l’amante ha piantato nei reni dell’amato, e cioè l’altro, è tale proprio e soltanto perchè costui è un altro. Perchè il più bravo idraulico di zona sa con tranquillità che se cambia quartiere nessuno, in quello precedente, potrà aggiustare i tubi come lui. Nella possibilità del paragone è intrinseca la consolazione essenzialista dell’infungibilità. E in questa possibilità si crea una metafisica e una gerarchia che ci restituisce una potenza virtuale : “se solo fossi là...”.
La spina nelle reni  che è il suo sostituto invece lo denuda. L’amato sente d’un colpo di sparare a salve, con le sue solite cartucce. Le sue connotazioni (le cartucce) non servono più a nulla. Perde in un soffio non solamente l’essenzialità di sè per il suo amante (e per il mondo intero), ma,  per le ragioni che si sono viste, anche la propria autonoma sostanza.
L’amante sta con l’altro, e questo vuol dire allora che l’altro gli piace per un certo suo modo di fare (che non è più quello dell’amato), di parlare (che di nuovo non è quello suo) ecc.
In tutto ciò l’amato si trova per la prima volta davanti a tre diversi mondi:

1. quello dell’ altro, che lui non può combattere con le sue armi consuete: se mentre le stava adoperando è arrivato lui, queste non danno più speranza.

2. Il mondo dell’amante, la sua infinita visuale, senza limiti più ampia di quanto l’amato fino ad allora aveva pensato che non fosse. Se l’amante sta ora riservando gli stessi baci all’altro, gli stessi che soltanto l’amato fino ad allora aveva ricevuto, in questa identità si mostra l’origine ora ignota di quelli che prima dava a lui. Si mostra cioè un altra origine, diversa dall’anima essenziale dell’amato. Questi non è più (scopre con orrore) la causa dell’amore dell’amante. L’identità dei baci mostra che lui (l’amante) ha libertà di scelta. Nascente quest’ultima da un luogo buio e sconosciuto (il luogo di quei baci disponibili al mondo) che prima neanche si sapeva ipotizzare. Se l’amato infatti aveva ritenuto che l’amante gli offrisse tutto quell’ amore a causa di ciò che lui (l’amato) propriamente era, a causa del suo proprium e delle sue connotazioni, l’anima stessa dell’amante si mostrava perciò chiara e specchiante come quella che l’amato scorgeva dentro se stesso:con tutte le sue connotazioni chiare e distinte, che lui portava in sè come una patente, dovunque andasse, e che gli offrivano tutto quel calore di cui l’amante era l’ultima sorgente.  Perchè mentre da solo l’amato passeggiava nel mondo, sapeva e sentiva che portandosi appresso quelle Eigenschaften, con sè portava anche il calore dell’amante, che per quelle lo amava.
 Ora invece l’amato è denudato, e l’impotenza stagna che sta provando per la prima volta di fronte a quell’inattaccabile nemico (che viene dallo spazio, che d’altra materia è fatto) mostra con evidenza che quello per cui l’amante aveva scelto lui non era tutto quell’apparato aristotelico di forme irriducibili.

 Che cosa allora?

3. Così l’amato scopre se stesso come un mondo ignoto. Se l’amante lo ha scelto, ma non per quel dispiegamento chiaro di attributi, e se ora l’amato non ha più cartucce pur possedendo ancora le stesse sue vecchie proprietà, sta riflettendo adesso che ci doveva esser dell’altro.          Ancora, ancora un altro, ma stavolta dentro, o dietro, ma comunque nascosto dalla sua stessa essenza, fino ad allora specchio chiaro e distinto della sua identità.

La gelosia però continua a fare parte dello stesso gioco. Non ne è affatto la sospensione, o la rottura. E’ solo ciò che più di altro ne mostra la struttura mostrandone l’inganno ineludibile.
Non è per nulla vero infatti che l’amante non ama il suo compagno per quello che quest’ultimo veramente  è.
E’ vero nel modo più banale che è la sua stessa essenza, l’essenza dell’amato, che l’amante ama.

Quello che in tutto ciò viene negato, e palesato come ingannatorio, è la meccanica onnipotenza dell’amato, non già la sua gratuita essenza.
L’amato resta essenzialmente quel che è: il suo essere Essenza resta ben fermo, in tutto ciò, e resta ulteriormente fermo che è proprio la sua essenza che l’amante amava.
Quello che invece si  palesa è che il rapporto tra l’ essenza dell’amato e l’amore dell’amante non è di implicazione, nè di causalità: non, in generale, meccanico: tale cioè da comportare una necessità.
Il denudamento dell’amato risiede nel fatto che questi scopre di essere gratuito, e che le sue eccellenti qualità per quanto eccezionali, non posseggono nessuno scontato ed automatico potere di far innamorare. Tra infinite scelte disponibili,  l’amante è proprio lui che ha scelto.
“Tu sei...tu sei...” erano parole che nel tono e nel registro indicavano senz’altro il fatto che il dichiarante adorava proprio l’essenza di quell’amato lì: ora però lui ama un altro, e per quante acrobazie l’abbandonato possa inventare, facendo sfoggio di quella stessa meravigliosa essenza,  l’altro ora ama quell’altro, e non c’è proprio niente da fare.
Così, l’intera sua sostanza, la sua essenza più vera in tutto ciò gli è stata ributtata addosso, e ora essa  non può che soddisfarsi di sè, e della sua intrinseca coerenza e consistenza, ridiventata essenza da essenziale che pretendeva d’essere.
Ora l’amato continua incessante a fare mente locale. Ripensa a come l’amante gli diceva sempre di quanto  egli fosse speciale e eccezionale. Ma ora l’amato pensa al suo amante con quell’altro, con un’ altra essenza discesa lì da Marte. E se ora, pensa l’abbandonato, l’amante che ora non lo è più, gli dicesse ancora, convinto veramente, che lui è speciale e eccezionale, tanto quanto prima, l’amato saprebbe ora sentire solo l’irrilevanza della specialità della sua essenza.
Così,  si trova ora a scoprire, a lui nulla importava del proprio sguardo, dei suoi pensieri e modi di parlare. Delle connotazioni dell’essenza. Gli  interessava invece d’essere essenziale.
L’amante aveva colto l’essenza dell’amato, e questo è vero, ma nell’alterità di quel marziano che l’ha sostituito, ora l’abbandonato scopre l’illusione: scopre l’inessenzialità della sua essenza, la non necessità della sua esistenza. E’ gratuito: non sta al mondo perchè quello che è, quello che irriducibilmente egli è, serva a qualcuno. Il mondo da lui prescinde, e il resto è falso.

Rifiutandone l’essenzialità, l’amante ha  gettato con lei  anche l’essenza dell’amato nel cestino.
Il suo sentimento che ora questi prova non è di deiezione, nè gettatezza. Troppo nobili parole. L’abbandonato si sente banalmente spazzatura. E’ gettato, sì, pure deietto, ma è deietto dentro un cassonetto.
L’amante sta con l’altro. La potenza magica e intrinseca delle connotazioni dell’amato s’è dissolta in un soffio.
Questa la tragedia: l’abbandonato possiede il senso autentico del valore immenso intrinseco a un’ essenza, la sua, ma questa non serve più a nulla.

Tutto questo risulta inevitabile.
E’ intrinseco al linguaggio dell’amore, e se non nelle parole sta nei suoi toni, che l’amante giudichi essenziale il proprio amato, e che costui tale si senta. “Perchè tu sei...”, è un frammento di discorso in cui risuona il “Non posso fare a meno di te”. In questa scansione l’essenza dell’amato è essenzializzata, e l’amato stesso acquista il senso della propria identità con sè insieme alla dichiarazione di essenzialità.
Questa essenzializzazione dell’essenza, questa stessa sua nascita  nel sentimento dell’essenzialità, porta in sè, immediatamente, la possibilità (l’inevitabilità) della gelosia.
Il mondo dell’amante non è l’amato. L’amato piuttosto è nel  suo mondo, che è  illimitato in sè. E’ il fatto stesso che in esso possa albergare un solo altro, pronto a subentrare, che rende interminato quell’ universo.
Quest’ orizzonte oscuro che sta davanti allo sguardo dell’amante (dietro, dentro di lui) dissolve tutte le garanzie,  e dunque l’idea stessa di un potere intrinseco all’amato.
La metafisica delle parole dell’amante, l’assoluto che questi giura di trovare nell’amato, porta con sè, di necessità, il niente della deiezione.
Lo sguardo di un anima si muove di necessità su un mondo più ampio di qualsiasi cosa su cui questa si venga a soffermare.

Ma non è esatto dire che la presenza di un virtuale sostituto sia solamente un fatto  (tale da rendere, come s’è ora scritto, interminato il mondo dell’amante).
Questa presenza è infatti inevitabile perchè è l’amato stesso che la esige.
La gelosia è quindi necessaria (in questa fenomenologia) per  la stessa richiesta di essenzialità che l’amato rivolge a chi lo ama. L’amato infatti esige di essere scelto : “mi vuoi veramente? , non voglio che continui per forza, o per abitudine, o per imposizione...nessuno ci obbliga a rimanere insieme”. In queste parole è riprodotto il paradosso più arduo della Libertà: la Ragione si autodetermina ad un imperativo, e ne nasce il kantiano “sentimento apriori” del dolore per un dovere liberamente autoimposto.
Così l’amato vuole essere preferito e scelto, e in ciò vuole essere amato da chi è libero.
Ma pretende altresì, facendo sua la più vetusta metafisica amorosa, che quella congiunzione di due anime ritorni nel dominio dell’ Essere dopo essersi eretta su quello della Libertà. Vuole che l’essere libero che liberamente (perchè così lui esige) lo ha preferito, lo ami con la certezza dei  legami dell’Essere; causa ed effetto; premessa e conseguenza.

Il nocciolo del gioco dell’eternità sta dunque qui: che nelle parole del  più libero amore necessariamente alberga l’assoluto e l’eterno. Anche senza alcun romanticismo d’espressione, dentro qualunque tono del più sano e vero amore risuona l’essenzialità di chi è amato.
La gelosia nasce dall’incomponibile scommessa di essere matafisicamente necassari, e dunque ontologicamente garantiti, per l’essere libero e infinito che ci ha liberamente scelto.
Il gioco dell’eternità è fatto di questa duplicità e di questa antinomia: si dice (si ascolta) “sei essenziale”: lo si dice, lo si ascolta  per forza, ma si sa che non è vero.

E allora,  è pur vero che il paralogismo amoroso consiste di questo slittamento da “essenza” ad “essenziale”, ma nell’opporgli un’ idea di “amore vero” che corregga quella viziosità sofistica, si incorre in um paralogismo che dissolve l’oggetto del discorso, nel ritenere che al gioco dell’eternità si possa non giocare.
Il nuovo vizio che corregge il primo consiste anch’esso di uno slittamento. Se proviamo a proporre che,  siccome l’amore è ingannatorio per il suo gioco dell’eternità che confonde essenza ed essenziale, bisogna allora riuscire ad amarsi riconoscendo che l’essenza non è essenzialità, questo  “amarsi” propone una nozione di amore differente da quella da cui si è partiti.
Un amore che ama senza essenzialità ama con libertà pura, con scelta incondizionata e senza quel dolore kantiano che mostra ogni libertà intrisa di coazione.
Questo tipo di amore può essere proposto, e si avrà allora un consentire che l’altro, il sostituto che scende da un altro mondo oscuro, entri nella sfera di scelta dell’amante e propria, e che vi entri attualmente: che ci sia già. L’amato sentirà  allora che la libertà dell’amante e quella sua è arbitrio piuttosto, che non ha catene e non offre legami. Si avrà una relazione allora come tra tante monadi leggere e svolazzanti, essenze non essenziali nè a sè nè per altrui: nessuna ombra oscura,  niente di ignoto.
Non ci pronunciamo sulla questione se questo sia possibile.
Chiudiamo invece concludendo l’argomentazione: in una tale situazione (questa delle monadi) non si potrà avere l’amante che dichiara un “tu sei...tu sei...” perso con lo sguardo nel vuoto, col cuore in fiamme a fondare l’essenzialità dell’amato con tutta la pesantezza di una metafisica illusoria, scandita nell’impianto teologico del suo innamoramento.
Questo  tra le monadi leggere non può accadere. E sostenere che questo sia “vero” amore è possibile solo arrendendosi al paralogismo che porta dal “falso” amore al “vero”, e che in verità muta in questa  correzione la natura di ciò che è in argomento, facendolo diventare qualcosa che  se pure possiede una identità propria, non è comunque quella dell’amore di cui si è fin qui parlato.

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