Un mattino incantato

Nicola Vassallo


 
 
Era uno di quei mattini velati di grigio che non sanno se illuminarsi di sole o piovere. Uno di quei mattini che ci si sente soli, come l'ultima cosa della terra destinata a scomparire. Uno di quei mattini fuori del tempo, con i vellutati silenzi che invitano a restare a letto e a vivere in altre dimensioni della mente, nel passato o nel futuro. 
In quei mattini tutto sembrava più silenzioso, tutto era più tranquillo, estraneo ai fracassi e alle assurdità della vita. Una giornata in cui ci si sente senza nome, un po' inutili e un po' padroni dell'universo.
In uno di quei mattini mi proposi di camminare senza meta, forse con l'unico scopo di stancarmi e poi dormire dieci ore di fila. Così uscii…
Le cose che vedevo erano le stesse che incontravo quotidianamente, eppure erano diverse. Ad ogni angolo scoprivo qualcosa di cui non mi ero mai accorto, un mattone sporgente, un palo storto, una piccola ed inutile bottega di calzolaio. Estraneo tra gli estranei percorrevo le strade. Il vero silenzio, quello che si può toccare con i pensieri, era in ogni cosa, vivente o meno, ed io assorbivo silenzio come le piante assorbono l'umidità.
L'unico posto dove potevo riposare il mio desiderio era a pochi passi: il Lungomare. Solo in queste mattinate si può vivere il lungomare cittadino, spopolato per i più, ma ricco di pensieri e di vita per quelli come me, imbevuti di anacronistica sensibilità per gli atomi di tristezza. Macchie verdi di panchine solitarie e stanchi monologhi di vecchi pensionati, silenziosi inquilini del lungomare mattutino. 
Camminai lungo la ringhiera che mi separava dal mare, con lo sguardo oltre gli scogli frugando nell'orizzonte le speranze dei miei sogni.  Il mare era immobile, tratteneva il respiro aspettando la novità dell'alta marea.
E finalmente i gabbiani mi chiamarono. Li vidi sfiorare la vita, dondolarsi nelle metamorfosi del mio instabile umore; alteri e fragili, felici di essere insieme, stregonerie della natura. Ripensai all'albatro di Baudelaire, così altero nel cielo e goffo in terra, metafora del poeta vincolato alla realtà. Mai come in quel momento mi sentii poeta tra i poeti, certo di aver creato io quei gabbiani, così eterei e quasi inesistenti nei grigiori delle alte e sottili nubi. Anche le palme, giganti di terre lontane, mi chiamarono con l'improvviso frusciare delle appuntite foglie. Erano sempre là e mi salutavano, mi davano il benvenuto.
Una tamerice quasi spoglia prima di addormentarsi nel sonno invernale, mi spruzzò il suo salato odore sul volto.Colpito da quell'inaspettata presenza mi avvicinai e con stupore la riconobbi. Era l'Albero, come l'avevamo battezzato Ciro ed io almeno quindici anni addietro, quando venivamo a pescare sul molo del porticciolo turistico poco distante. Sulla scorza erano ancora visibili due serie di segni che praticavamo prima di ritornare a casa: ogni tacca, un piccolo pesce. Quelle sopra di Ciro, in basso le mie, con due tacche in più.
Due bambini allegri, ignari del futuro ma felici del presente. Uno biondo come una spiga matura, l'altro nero come la pece bollente, per questo li avevano soprannominati Sale e Pepe. Erano amici come si può essere solo a dieci anni, quell'amicizia totale, coinvolgente, che lievita le anime, plasma le personalità.  E la loro amicizia era scritta anche nei loro nomi, costruiti con lo stesso numero di lettere, e di questo andavano orgogliosi, come se fosse una loro creazione.
Erano amici e trascorrevano insieme moltissime ore, a scuola, a casa per studiare e nel tempo libero per giocare o pescare. Non si annoiavano a stare sempre insieme, avevano continuamente cose da dirsi e, se per caso, non avevano niente da raccontarsi, si dicevano a vicenda delle grosse frottole inventandosele al momento, per poi ridere a crepapelle scoprendosi bugiardi l'uno con l'altro. Erano amici e lo restarono fino alla seconda media, poi Sale partì e Pepe rimase solo, e da quel giorno decise di non avere più amici.

  - Beh, - disse Pepe, - di che parliamo oggi? 
  - Non so…
  - Cavolo, te ne vai! Dobbiamo dirci tante di quelle cose. Tutto quello che dovevamo dirci il mese prossimo e il successivo!
  - E' strano, ma non ho voglia di parlare. 
L'amo s'impigliò nelle rocce, ma Sale non fece niente per districarlo.
  - Ti vedo strano...
Sale chiuse gli occhi e fece una smorfia.
  - Ti ricordi la casa disabitata vicino la chiesa del Carmine? Il secondo piano, quello con i balconi?
  - Certo.
  - I vetri sono sempre stati rotti?
  - Sì… mi sembra di sì.
  - Ne sei certo?
  - Quella casa è lì forse da un centinaio d'anni. Perché?
  - Perché oggi li ho visti; li ho visti per la prima volta. Intendo i vetri rotti. Perché in tutto questo tempo non li ho mai notati? 
La lenza era ancora impigliata. Si voltò verso Pepe, era spaventato. 
  - Dio, perché quei vetri devono spaventarmi? Non c'è niente di tremendo, è solo che... è solo che ho riflettuto che se non ho mai visto quei balconi, quante altre cose non avrò notato? E le cose che ho visto, quante ne riuscirò a ricordare quando sarò lontano da qui?

Mi risvegliai dal torpore nel quale ero incautamente scivolato, mi scoprii seduto in terra vicino l'albero che, assolto dal proprio compito, s'era addormentato.
Il mare ancora silenzioso e i gabbiani scomparsi, tutto era deserto come il mio animo.  Inconsciamente avevo cercato di cancellare quei ricordi, e il tempo mi aveva aiutato, ma era bastato un attimo per rimescolare tutte le mie emozioni sedimentate come polvere sul fondo degli oceani.
Ero ancora più stanco e infreddolito ma decisi di sfidare il mattino incantato. Giunsi sul molo, anche qui tutto era deserto, anche qui le cose trattenevano il respiro nel silenzio delle emozioni.
Le barche ancorate nel porto non produceva il classico sciabordio nell'acqua: anche loro attendevano. Camminai per un po' quasi in punta di piedi e con lo sguardo in terra, come si cammina in una cattedrale; ero in un luogo sacro, oberato di peccati e desideroso di confessione. Lo sguardo immediatamente volò dove io e Ciro pescavamo abitualmente. Il punto era a circa settanta metri. Vidi una sagoma scura. Sembrava una rete da pesca ammucchiata in apparente disordine. Mentre mi avvicinavo, la sagoma assumeva contorni sempre più definiti: mi ero sbagliato, non era una rete da pesca.
Si muoveva, i movimenti erano lenti e molli, come di un qualcosa che cresceva contorcendosi, si materializzava.  Feci ancora qualche passo e la cosa assunse finalmente fattezze umane. Ebbi paura, non per quello che vedevo, avevo paura di quello che avevo dentro, delle mie emozioni, dei miei pensieri, del mio cuore troppo inaridito, disabituate ai sentimenti e alle lacrime.
Al rumore dei miei passi si voltò, sorrise e disse: 
  - Mi aiuti? Si è impigliato l'amo proprio nello scoglio qui sotto.
Trasalii, non per la richiesta fattami, ma per chi me l'aveva fatta. Era un vecchio di circa settant'anni con un cappellaccio unto, calcato fino alle orecchie, la pelle grinzosa e il sorriso bianchissimo. Ero deluso, inveii contro il mattino incantato che si era rivelato un fallimento. Aiutai il vecchio, e con due rapidi movimenti del mio giovane braccio riuscii a districare l'amo, e senza parlare glielo riconsegnai. Questi continuò a sorridere e fissò il suo sguardo nel mio, uno sguardo stonato.
Poi disse:
  - Cosa fai qui, in questo posto di vecchi? 
  - Passeggio. - risposi, e stavo per allontanarmi, ma la voce del vecchio mi bloccò. 
  - Credo proprio che tu mi stia mentendo…
Lo guardai forse con un sorriso ironico.
  - Cosa glielo fa pensare?
Anche il modo di parlare del vecchio era stonato, volto da pescatore, abiti dimessi ma parlava come uomo di una certa cultura.
  - Ti conosco troppo bene, - fece una pausa ad effetto e continuò: - Arrivati alla mia età si può dire di conoscere un po' tutti, e di capire se qualcuno dice bugie. Tu stavi cercando qualcuno e sei rimasto deluso di aver trovato me, non è vero?
Era vero. Ed il vecchio cominciava ad innervosirmi. Ah, certo, era dotato di un buon intuito, ma tutto qui!
  - Cercavo un amico. - dissi piuttosto freddamente.
Il vecchio sorrideva sempre ed ora cominciò anche ad annuire col capo.
  - Cercavi un amico. - ripeté spegnendo il sorriso e guardando nel vuoto. - Anch'io avevo un amico una volta, ma poi mi ha abbandonato, o meglio, mi ha dimenticato, sepolto dentro di sé, per il solo fatto che non poteva più vedermi ogni giorno, e così…
Si fermò, rimise il suo sguardo stonato nel mio e quasi con tristezza disse:
  - E tu, l'hai dimenticato il tuo amico?
Non risposi, non sapevo che dire, volevo andarmene, sentivo il sangue ronzare nelle orecchie.
Il vecchio attese la risposta che non ci fu e poi disse:
  - Vuoi andartene? Vuoi scappare via perché hai paura di invecchiare come me. Vai, vai pure, ma ricorda una cosa molto importante; le cose che si dimenticano, che si vogliono dimenticare, invecchiano molto più rapidamente di quelle che si ricordano spesso. Vai adesso, perché devo continuare a pescare, devo prendere altri due pesci per mangiare stasera.
E si rimise a pescare ignorandomi completamente.
Mi allontanai lentamente. Volgendomi indietro spesso. La figura del vecchio pian piano si  ritrasformò in una sagoma nera inerte, senza vita: una rete da pesca ammucchiata in apparente disordine
Le barche giocavano rumorosamente con l'acqua, i gabbiani urlavano dall'alto e i miei passi suonavano pesanti sulla banchina. 
Iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia.



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Data di pubblicazione 2/8/2000 
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