Masada

Claudio Melchiorri


 
"Non lontano da Gerusalemme era una fortezza munitissima di nome Masada, costruita dagli antichi re per depositarvi i tesori e a riparo delle loro persone in caso di guerra"... "un massiccio roccioso di non piccola circonferenza e di notevole altezza è circondato tutt’intorno da profondi strapiombi che emergono a picco da un precipizio irraggiungibile dalla vista e che nessun essere potrebbe scalare, tranne che in due punti ove l’ascesa è possibile anche se non facile". L'aveva edificata il sommo Sacerdote Gionata "poi il re Erode dedicò grandi cure a rafforzarne l'impianto. Egli infatti innalzò tutt’intorno alla cima un muro costruito di pietra bianca.... da cui sporgevano trentasette torri...vi costruì poi anche una reggia... Inoltre presso ogni luogo destinato ad abitazione sia sopra sia intorno alla reggia, come pure davanti il perimetro del muro, aveva fatto scavare nella roccia un gran numero di capaci cisterne per la conservazione dell’acqua, assicurendone il rifornimento in quantità non inferiore a quella di chi dispone di sorgenti... c’era poi da restare ancora più meravigliati per l'eccellente qualità e la buona conservazione delle provviste che vi erano state immagazzinate; infatti vi si trovava ammassata una forte quantità di grano, bastante per lungo tempo, v’era gran copia di vino e d'olio e inoltre ogni sorta di legumi e mucchi di datteri".  (La guerra Giudaica ? cap. VII ? di Flavio Giuseppe).

Nella fortezza regnava un clima di enorme agitazione, tutti gli uomini erano stati ad ascoltare le parole del Comandante ed ora le commentavano parlando tra loro; chi urlava, chi piangeva, chi restava in un angolo in silenzio.
Fasael li guardava un po’ meravigliato mentre ritornava a casa dopo aver guardato, con gli occhi sgranati, il grande incendio che aveva completamente distrutto il muro costruito dopo che i Romani erano riusciti ad abbattere quello principale che sorgeva più a sud.
L'assedio proseguiva da lunghi mesi; serpeggiava ormai una diffusa stanchezza, lui da tempo non poteva più giocare con i suoi amichetti e passava le giornate a casa o al massimo nella spianata posta su in cima, la sola al riparo dai massi e dalle fiaccole accese che i nemici catapultavano dal terrapieno edificato sulla grossa prominenza rocciosa chiamata Bianca.
Trovò i genitori con i volti inondati di lacrime, che soffocavano di abbracci la sorellina, piangevano e si meravigliò nell'osservare un uomo burbero e di poche parole come suo padre con gli occhi bagnati alla pari di una qualsiasi donnicciola, proprio lui che gli aveva insegnato che i veri uomini non piangono mai, che quando lo bastonava  lo guardava dritto negli occhi, pretendendo che non versasse lacrime, altrimenti la punizione sarebbe stata ancora più dura.
Appena lo videro gli corsero incontro, stringendolo in un intenso abbraccio, al punto che Fasael si divincolò, chiedendo stupito cosa stesse succedendo, senza però trovare risposta, se non gli incessanti singhiozzi dei genitori.
Scappò fuori, inutilmente richiamato e si diresse in direzione della spianata e, alzando gli occhi verso il cielo, come sempre meravigliosamente azzurro con il sole accecante, notò gli avvoltoi che minacciosi volteggiavano in cerchi concentrici sempre più stretti, emettendo quegli orribili versi che preannunciavano la morte. Ne ebbe stranamente paura e senza motivo si mise a correre, dirigendosi verso la casa del suo amichetto del cuore.
Saturnino, qualche anno più di lui, sapeva sempre tutto, gli aveva insegnato un sacco di cose: prendere le lucertole, tirare le frecce, fare a pugni; l'aveva difeso tante volte, quando i ragazzi più grandi lo prendevano in giro; era orgoglioso della sua amicizia.
Giunse trafelato nell'abitazione dell'amico, ma sulla soglia vide il padre di lui che giaceva per terra in una pozza di sangue. Lo guardò inorridito ed ebbe l'impulso di fuggire, ma doveva capire. Con il cuore che gli batteva forte, tremando, sbirciò dentro la casa ed urlò di terrore.
A terra, tutti sgozzati, i corpi della madre, di Saturnino e dei suoi fratelli, quasi annegati nel sangue. Gli parve di impazzire, uscì di corsa e in pochi minuti arrivò alla spianata. Il vento ululava implacabile. Non smetteva mai a Masada di soffiare. Giorno e notte. Estate ed inverno. Per evitarlo bisognava scendere a valle, verso Asfaltite, il grande lago salato. Entrava nelle ossa, screpolava la pelle, determinava la vita di tutti. Ma non si poteva fare diversamente, solo lì sopra, nella fortezza, potevano opporre una valida difesa ai nemici.
Fasael si fermò ansimante, non sapeva cosa fare: tutt'intorno nient'altro che sangue e cadaveri e alcuni uomini che con grossi coltelli si avvicinavano ad altri, i quali porgevano le loro gole senza alcuna esitazione. I volti di tutti non esprimevano terrore né disperazione, ma una strana reciproca fiducia, come se quel ricevere la morte fosse una specie di liberazione. Mentre guardava inorridito, sentì una voce femminile: " Fasael, sono io Marianne. Non rimanere qui, ti ammazzeranno. Seguimi". Era una parente del Comandante, quella che ogni tanto radunava tutti i bambini, narrando loro delle storie fantastiche, ascoltate a bocca aperta e con il naso all'insù. La sua posizione privilegiata (si mormorava che discendesse da una nobile famiglia giudaica) le permetteva all'interno della comunità una vita agiata, rispettata da tutti, malgrado non si fosse mai sposata. Era lei la memoria storica della città, una delle poche persone che sapevano leggere e scrivere, a cui, unica donna, persino il Comandante ogni tanto si rivolgeva per qualche consiglio.
"Ma cosa succede?" invoco Fasael, che l'aveva raggiunta al riparo di un portico. "Eleazar ha parlato al popolo'' rispose lei "annunciando l'ormai inevitabile sconfitta. Ma piuttosto che arrendersi ai Romani, ha ordinato che prima venga incendiata la fortezza e distrutta ogni cosa, tranne i viveri per dimostrare che non per fame siamo caduti, e poi che tutti vengano uccisi, affinché le donne non conoscano il disonore e i figli la schiavitù. Quelli che resteranno si uccideranno a vicenda, sino a quando nessuno dovrà rimanere vivo. E' nota la ferocia dei nemici, ha detto il Comandante, e se ci prenderanno, ci costringeranno alle più inimmaginabili torture. Da morti, invece, si stupiranno per la nostra fine e ci ammireranno per il nostro coraggio. Io non sono d'accordo" concluse ''ma tutti, come invasati, credendo di dar prova di coraggio e saggezza, sono stati presi come da una smania di uccidere mogli, figli e se stessi. Vieni, sottraiamoci a tanta follia".
Fasael, che l'aveva ascoltata quasi incredulo, la seguì, quando ad un tratto, si fermò. "Aspetta" le disse "devo andare a salvare la mia sorellina" "No" quasi gli urlò la saggia Marianne "tuo padre ti ucciderà". "Devo correre questo rischio. Non posso farla ammazzare". Marianne lo guardò intenerita, carezzandolo. Aveva poco più di dieci anni, Fasael, ma era già un ometto. Lei non avrebbe potuto dissuaderlo. "Va bene, stai molto attento, però, e non ti fidare di nessuno. Ti aspetto nell' incavo del terzo cunicolo sotterraneo, dove si trova già mia cugina con gli altri bambini che siamo riusciti a salvare. Sono solo quattro, ma è già qualcosa. Fai presto".
Fasael le sorrise e scappò via, verso casa. Corse a perdifiato, ma giunto davanti la tenda che copriva la soglia, vedendola tutta intrisa di sangue, capì di essere arrivato troppo tardi. Entrò con le gambe tremanti e vide la madre, per terra, con la sorellina ancora in braccio, sgozzate come capretti. Odiò con tutte le sue forze il padre e scoppiò in un pianto dirotto, accovacciandosi vicino ai loro corpi. Le chiamava e le accarezzava, ora si sentiva solo, tremendamente solo. Decise anche lui di morire e cercò invano una spada per uccidersi ed unirsi di nuovo a loro, lassù nel cielo. Una voce lo gelò. Da fuori il padre lo cercava " Fasael, Fasael" urlava "dove sei, figlio mio. Vieni, vieni". Si acquattò dietro un mobiletto, guardando fisso la tenda. All'improvviso ebbe paura, una folle paura di morire. Il padre comparve e lo vide immediatamente. Era tutto sporco di sangue con un grosso coltello in mano. "Non ti spaventare, lo faccio per il tuo bene". Si avvicinava lentamente, con il viso coperto di lacrime, deciso a porre fine una volta per tutte a quella tragedia che aveva sconvolto la sua vita. Il bambino tremava, completamente bloccato per il terrore, gli occhi spalancati, incapace di muovere anche un solo passo. Ormai il padre era vicinissimo e Fasael chiuse gli occhi, aspettando il colpo mortale. D'improvviso, però, la tenda si apri ed apparve un omaccione, che con un balzo si avventò sul padre e da dietro lo sgozzò con un sol colpo, davanti agli occhi atterriti del bambino. Poi si guardò intorno e si allontanò, senza vederlo. Dovette trascorrere un po' di tempo, prima di riuscire a riprendersi e fuggire da quell'incubo. Camminava piano, rasente contro i muri per non farsi vedere e dopo un tempo che gli parve interminabile giunse nel luogo indicato da Marianne. Questa l'abbracciò forte, stringendoselo al petto. "Grazie a Dio sei ancora vivo. E la tua sorellina?" Fasael riprese a singhiozzare "Non pensarci più, anche lei è andata in cielo e ti proteggerà dall'alto". Marianne lo guardò. Aveva sempre avuto un debole per quel bambino, con i capelli ricci, gli occhi neri e luminosi, sempre attenti e curiosi. Ora era diventato improvvisamente un uomo, perché aveva conosciuto il dolore e la morte. Lo accompagnò dagli altri bambini e tutti insieme rimasero ad aspettare.

"Essi erano morti credendo di non lanciare ai romani nemmeno uno di loro vivo; invece una donna anziana e una seconda, che era parente di Eleazar e superava la maggior parte delle altre donne per senno ed educazione, si salvarono assieme a cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l'acqua potabile mentre gli altri erano tutti intenti a consumare le strage: novecentosessanta furono le vittime... le due donne, risalite dal sottosuolo, spiegarono ai romani l'accaduto e specialmente una riferì con precisione tutti i particolari sia del discorso sia dell'azione... Quando i romani furono di fronte alla distesa dei cadaveri, ciò che provarono non fu l'esultanza di aver annientato il nemico, ma l'ammirazione per il nobile proposito e per il disprezzo della morte con cui tanta moltitudine l'aveva messa in atto"  (Flavio Giuseppe, op.cit.).

Il fatto accadde il 15 di Nisan, primo giorno della Pasqua ebraica. Volgeva l'anno 73 D. C.



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Data di pubblicazione 11/12/2000
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