Fianchi

Bonifazio Mattei


 
 A quest’ora ti voltavi dalla mia parte. Cercavi la mia mano tra le lenzuola, la stringevi debolmente e io davo una scossa più forte. La tua mano allora restava inerte come una foglia che ha avuto il coraggio di cadere.
Tu credevi di svegliarmi, all’alba ti eri data questo compito, per te era come tenere una noce in una tasca stretta.  Ma io ero sveglio, ogni mattino aspettavo il tuo gesto col quale forse volevi sancire una specie d’ordine tra me e te, un soccorso che chiedevi o davi, che ti accontentava.
Una volta  hai trovato la mia mano addormentata, come quella di un morto, sarà capitato anche a te di  muovere un braccio al risveglio e di sentire addosso, nei panni, un braccio di paglia. Ecco, il più delle volte era come se non potessimo toccarci, come se tu stringessi quel braccio di nessuno.
Noi non avevamo tanta intimità. Non voglio dire che non l’abbiamo mai avuta, ma forse ci restava poca tenerezza, qualche carezza mite che non volevamo ancora privarci, per eludere tra di noi tanti sospetti. Un tempo cercavi le parti fredde del lenzuolo e ti avvicinavi a me, ti piaceva sfiorarmi i piedi, ridere, ti piaceva dire cose al contrario, proverbi, filastrocche alla rinfusa. Poi tutto finiva debolmente, il sonno che era per giungere imponeva una serietà, nessuno si è mai addormentato ridendo. Io nei momenti di silenzio pregavo, due parole per uscire, di affrancamento per la notte. Potevano essere parole d’occasione, versi del Pascoli o le preghiere dell’infanzia, parole che sono rimaste sulle labbra di chi è uscito dalla vita per sempre.
Da qualche notte faccio sogni pieni di tormente. Stanotte il vento era tanto forte che sentivo la neve scolpirsi. Nel mio sogno ci sono state strade battute per le slitte, rocce screziate come coralli sotto il ghiaccio. C’era anche una donna, forse eri tu Miriam, avevi vestiti che non hai mai indossato ma c’era un po’ d’azzurro che ti ricordava. Scendevi tra gli alberi, i passi calcavano la neve morbida. Con te c’era quell’uomo di mezz’età che ti teneva stretta all’uscita del cinema,  a proposito, tu non mi hai visto, ero qualche passo dietro, ma voglio dirtelo con onestà che quasi non mi ha fatto effetto. Eri lì, un po’ curva nel giubbotto, camminavi a piccoli passi. Eri un puntino fra tanti e avevi addosso il braccio di un mercante di schiave. Lo giuro che non mi ha fatto effetto, non dico così per disprezzo. Solo mi è sembrata una storia avvilita, fatta  solo  di corpi, una strana affinità di amore e  materia. Nel sogno vi lasciavate cadere abbracciati, in un modo stupido, come a imprimere la vostra forma nel bianco. Quando mi hai visto hai inscenato una caduta, ma sembravi seria, ti toccavi una spalla. Abbiamo raggiunto la strada e non facevi che voltarti, avevi quel modo di sorridere degli ultimi mesi, quel modo di pensare a qualcosa così lontano da me.
C’erano tanti tizi che ti giravano intorno, gente irritante che magari alzava il gomito perché avevi sposato uno qualsiasi, mentre tu eri bella e sembri ancora una ragazza. A volte è così, le persone vicine invecchiano lontane. 
Ora mi resta un modo per fermare il mio tempo, è  un gioco che ripeto nei giorni come questi, quando il bene che mi voglio è come un cane perduto in un quartiere: basta una finestra, un punto lontano tra le case e il cielo, sai, quei mondi che ti accontenti di pensare. E’ questione di un istante e mi sembra di capitare in un momento imprecisato, a metà della vita. Nel vuoto vedo sorgere un campanile dalla guglia innevata, al centro c’è un orologio senza lancette e i fiocchi di neve alitano intorno. Sembra il campanile di un paese dove abbiamo sostato una sera d’inverno, ricordi, lassù sulle Dolomiti, quando mi dicesti che volevi un figlio. Andammo a cenare in quel posto di lusso che ti sembrava di conoscere senza aver mai veduto. Parlammo di tanti momenti  “già visti”, e il parlarne sembrava uno di quelli, perché c’era sotto un’emozione che tratteggiava i gesti, li rendeva più prossimi che veri. Quando abbiamo ripreso la strada ricordo era quasi buio, ma c’era un bagliore di luce e potevi vedere distante, allora tu indicasti il campanile che si allontanava e guardasti dietro tra i sedili vuoti come se lo vedevi già il tuo bambino. Ricordo i mucchi di neve spalata che costeggiavano la strada e noi che andavamo lenti verso il buio, dove moriva ogni curva.
Così stanotte ho sognato quelle strade, soltanto ero triste e mi tornava il fastidio della neve tra i denti, il freddo del ghiaccio gommoso quando lo provi a masticare. Eravamo tra le correnti del cielo perché le nuvole correvano in mezzo a noi e ci facevano sembrare dei corpi indefiniti, ed io lo sentivo che eravamo tanto soli, anche il mercante di schiave che tossiva come un lupo era solo, eravamo come gli alberi alti e dritti dei boschi, e faceva freddo, che mani gelate avevo. 
Erano belli quei posti in montagna, paesini di case e comignoli che sembrano acquerelli. Così stanotte mi sembrava d’esser lì insieme a te, Miriam, a battere di porta in porta le maniglie risonanti, ed era come se quel mondo fosse già stato, quei colpi già avvenuti. Era un epilogo della vita, senza che la vita avesse dato risposte, senza nessuna notizia di noi.
Poi mi sono svegliato. Avevo freddo, un formicolìo nella mano che presto si sarebbe esteso lungo tutto il braccio, e ancora una volta il risveglio non m’è parso il risveglio della mia vita. Mi domando come potevo, da bambino, rammaricarmi del giorno che finiva, delle ore della notte che mi sembravano rubate ai miei giochi, e temere che le cose non potessero tornare così come s’erano disposte alla mia felicità; ora semplicemente infatti, mi sembrava  che non potessero tornare al loro senso.
Avrei giurato che gli uomini della pioggia, ora che nel quadro della camera da letto ricominciava a piovere, fossero l’uno accanto all’altro nella strada deserta. Adesso invece gettando un’occhiata mi sembravano distanti, quasi estranei. E anche le case  erano diverse, più alte e più grigie. Mi chiedevo se fosse possibile che avessero fatto un po’ di strada. Invece di una cosa ero certo. Quella fermata d’autobus che stava nel fondo, lì non c’era dubbio che c’ero stato. 
Alcuni luoghi possono darti fiducia e non avere giudizi su di te. Questo può voler dire esserci stato. Trovare un segno di riconoscimento di non essere passato di lì. 
Questa casa ha dei balconi così stretti che danno sulla strada come quei posti al teatro dove si vede tutto di sbieco. 
Da un po’ di giorni c’è sempre un uomo sotto casa che ti aspetta. Un tipo con la barba e i calzoni calati. Passa almeno un quarto d’ora appoggiato all’automobile, senza fare nulla, tira su col naso e fuma di dispetto. Sembra un tipo qualunque, uno di quelli che aggiunge il torto ai torti.  Non so se aspetta veramente che tu torni, ma sembra  conoscere  i tuoi orari. 
A volte penso a quanti uomini hai accompagnato in queste strade, a quanta gente disposta a comprare hai sorriso lasciando capire chissà cosa. Magari se c’era un buon affare vi sarete fermati a mangiare in centro, con in mente ancora i nomi dei quadri, delle avanguardie e le date delle gallerie, cose che fanno venire appetito. O forse durante il pranzo il tuo signore avrebbe creduto di poter comprare te, e prima di ogni cosa glielo avresti lasciato credere. Non so se è andata mai così, ma a volte ti ho pensato in una bella camera del centro, mentre affondavi le mani nelle tasche di un tale.
So cosa ti succede quando qualcuno ti gira intorno. Ti senti lusingata e cerchi di ricompensare, il tuo rifiuto comporterebbe il divieto di sentirti piacente, nel disilludere il tuo amico gentile ne colpiresti la speranza, che tu sai essere molto suscettibile poiché riconosci l’eccezione di essere amata. Così tu non puoi offenderlo, colui che ti tiene nelle sue mire vale più di tutti, vale più di te stessa. Tu diventi la prima estimatrice del suo spirito, la musa interessata delle sue vicende. Solo tu non vuoi curare la tua vanità, tu vuoi solo esaudire. Il complimento che ricevi impone un entrare in gioco, l’attesa ti rassegna.
A volte la sera, mentre mi spogliavi, mi sembrava che tutta la tua vita si rivoltasse contro te stessa. Allora mi abbracciavi i fianchi e mi baciavi, e ogni tuo gesto diventava esso stesso il segno di una contrizione, così che niente aveva peso nel prima o nel dopo, tutta la tua forza morale si concentrava nell’obbligo, la dedizione era il tuo castigo. Questo mi faceva sentire distante, un giudice lontano che per commissione passava sul tuo corpo, con la sua vita neutra  si accaniva contro quella di un’ altra. Un po’ ne soffrivo, ma non disdegnavo questo ruolo. Incrociavo una certa tua indifferenza,  sopportandola. Mi  era  dato di  osservare  a vista la tua  vita così come a volte capita di guardare dal di fuori la scena di un gioco già avviato, la natura morta che resta negli occhi di chi non partecipa. Del resto cosa si può chiedere a un uomo condannato a godere di un piacere che dà, costretto al ruolo un po’ anonimo di  recare un  piacere cercandolo? 
E’ così triste il piacere di un uomo che a pensarci mi viene il freddo nei fianchi, come nelle notti in cui si dorme scoperti nella stanza che raffredda. 
Allora sembra di guardare il mondo con gli occhi di nessuno e che qualunque posto della tua vita sia un nessun luogo. Forse non ti è mai capitato di sentire che i tuoi occhi partano dal vuoto, un caso quasi di assenza o di passaggio dentro un’altra vita. Puoi riconoscere luci, oggetti, suoni, ma nell’ambiente, è così strano, ti senti mancare e tu non partecipi di questa mancanza. La tua coscienza stenta nell’intenzione continua di suoi significati, e le cose, solo in lontananza, sembrano appena adatte alla loro vita di cose, al chiuso, in una loro realtà sufficiente.
Pure tutto quello che hai visto e vissuto deve essere rimasto da qualche parte, in un lontano minuto secondo, fra quanti secondi  hai raccolto nei giorni.
Chissà quante persone sono stato, quanti singoli me stesso ho percepito in tante occasioni. A volte sento dentro di me il cielo di una piazza di provincia, quelle piccole piazze dal pavimento regolare e dal cielo fiorito d’azzurro e di nuvole. Non è solo un ricordo, certo mi sarò seduto in quel caffè, avrò camminato tra i piccioni, nel registro della chiesa avrò scritto il mio nome tra tanti. Ma non è un semplice ricordo, è la strana curiosità per le cose che sono accadute, nelle quali forse è rimasto quello  che chiedevamo alla vita. Cosa sarebbe stato di me? Penso al momento in cui lo chiesi a me stesso, al tempo in cui avevo in tasca una risposta sicura. Deve essere stato lì all’angolo della piazza, nel piatto povero di un suonatore di violino. La fontana al centro avrà atteso che il mezzogiorno asciugasse l’umido intorno; deve essere stato negli aliti della gente bianchi di collera, nelle voci di vecchi e bambini già distanti, già echi delle mattine domenicali. Deve esserci un attimo nella vita in cui l’insieme delle cose, per un contatto fortuito, ci rende il piacere estremo della realtà. Basta questo soltanto, in fondo, un campanile innevato. E allora penso che non mi importa più di niente, delle mie calze bucate, dei vestiti ombrati. La vita mi resta attaccata teneramente perché il mondo  mi  rende  superfluo,  mi  fa  allentare  i  polsi,  come quando ci scorre sopra l’acqua fredda e la vita batte nella vena azzurra, e la vorresti graffiare, darla a un dente di serpe, ma ti accontenti di baciarla, di ritrarla a te, per giurare la pace con la vita che prima ti ingombrava.
Da ragazzo scrivevo sui muri, scrivevo di tutto, anche le parolacce o messaggi di amore che non vivevo. Una frase poteva cambiare gli ambienti, le strade. Restavano sullo sfondo, parole di vernice che colava, lì, di fianco alla bottega di un calzolaio o alla fermata del tram, mettevano fretta al cuore dei passanti e rabbia a chi lavorava nei giorni di festa. Una volta scrissi sul retro di una chiesa : Tumulazioni, spari, nascite, l’universo intero è nausea. Nei giorni che seguirono vi vidi passare accanto carri funebri e un traffico insulso. Provai rincrescimento e non scrissi più nulla. Solo le date, date su ogni foglio, sulle liste della spesa e sugli alberi. Tu ne ridevi e io so per certo che è una mania, ma è un modo di distanziarmi da quello che faccio come da un bene. Ho paura delle cose che non sono registrabili, che cadono dove? Allora preferisco uccidere gli atti di mio pugno, perché nella volontà di una fine c’è una certa saggezza. Non è come dici una smania di restare, di essere immortali, è un bisogno di giocare col destino, di servirmi di segni e circostanze per orientare quel vago senso di morte che si possiede in vita. 
Quel vago senso di morte. Adesso ripetilo mi dico, perché a me piace suscitare ad arte un fondo di rassegnazione naturale che accolga la mia vita, nel piacere di una consapevolezza. E così a volte in un mercato, chiedendo l’ora a una signora affaticata dalle buste, nella svogliatezza delle cassiere, nelle battute dei baristi, nelle doppie al totocalcio, per un qualcosa di innocuo, per la terza possibilità in agguato, mi ripeto: dillo adesso che nessuno ti sente, che il destino è in pianura ed è distratto dagli auspici. Allora come un resto esiguo che s’infila nelle tasche, degli spiccioli scalati a un ammontare imprecisato, mi rimane, quel vago senso di morte. D’improvviso le sequenze degli eventi si allentano, qualcosa le affatica e quasi le arresta. Le cause non danno più gli effetti, come il tuono di quel giorno che voleva piovere e non è piovuto. E’ l’attimo che precede qualcosa che non si è mai avverato. Tutte le cose si fermano nella solitudine della loro comunione, in un dissidio di fraternità. Sembra l’istante di un commiato. Gli uomini della pioggia lasciano la strada, la fermata resta appena sullo sfondo. E se mi chiedo cosa porto via da questa terra, mi viene in mente solo un brivido nei fianchi, qualcuno, qualcosa, niente, nessuno.
Di colpo mi viene in mente un qualcosa che stavo per capire, anzi, che ero sul punto  di dire perché non occorreva pensarlo o capirlo, era una cosa che c’era, che c’era e basta, astratta e banale come la vita. Questo pensavo, un pensiero non fatto che racchiudeva tutto, la vita intera. Mentre sono qui ad aspettare un secondo che non batte, per uscire dal tempo, diventare un uomo della pioggia per qualche altro nessuno. 
Tu stai dormendo Miriam e non hai pentimento di nulla, dormi nell’ordine che imponi ai tuoi interessi, nel sollievo che concedi ai tuoi sbagli. Senza alcuna fatica a credere che quel che ti coinvolge è solo il marcio del mondo che corrompe. Ma la malizia ha le stesse costole dell’ingenuità, se ne divide gli stessi privilegi.
Dormi e non sai nulla, e neanch’io so perché adesso ti tendo la mano e aspetto che tu la stringa, adesso che è l’ora di alzarsi e tutto torna come sempre. E come sempre, buongiorno, ti sorrido.
 


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Data di pubblicazione 20/11/2000
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