A Miguel Angel Tenorio

Pier luigi Baglioni


 
 
Mio caro Miguel,
 tu mi hai raccontato della tua immensa capitale federale, Città del Messico; la sua vita, le sue bellezze. Vuoi sapere della mia piccola (al confronto) ma altrettanto bella Genova. Cercherò di fartene un affresco sintetico ma completo in omaggio all’amore che hai della cultura italiana, specialmente di Firenze e del Rinascimento Toscano (i Medici e Machiavelli, la tua tesi di laurea). Tutta l’Italia è bella, colma di città d’arte e luoghi di pregio e particolare bellezza… Sapessi quanto contrasto di genti e culture si arruffa dentro lo stivale!  Ti posso parlare di Genova come non potrei di Palermo, Napoli, Roma o Milano, anche se droga, multinazionali e televisione hanno ormai universalizzato e uniformato molti aspetti delle vite cittadine. Tuttavia nella gente comune sopravvivono ancora peculiarità che cercherò di illustrarti. Le mie radici familiari non sono liguri; sono vissuto a Genova ma nato in Toscana, da genitori toscani il cui sangue si perde nella profondità dei secoli. Ma tuttavia, respirando l’aria della mia città adottiva, ne ho assimilato la mentalità se non l’uso del dialetto. In passato ciò avrebbe dato un segnale di inferiorità, la ‘non appartenenza’. Ma le attuali generazioni parlano la lingua madre, l’italiano, sempre e non solo dentro la scuola. Che oggi è promiscua di immigrati; lingue arabe e circasse che hanno sostitutito i familiari dialetti del nostro sud. Da ragazzo non ho sofferto della mancanza dialettale se non durante i viaggi, quando incontravo concittadini che si rivolgevano a me in genovese ed io dovevo rispondere in italiano. 

Oggi essendo rarità, il dialetto, si è rivalutato. Al contrario del passato quando era considerato  grossolanità, oggi borghesi e operai lo raccomandano ai figli. La classe agiata, il mondo delle professioni, oggi, ne coltiva il gusto con civetteria. Nella Genova cosmolita contemporanea affettare il dialetto distingue dai "foresti". Lo declamano con tono aulico, musicale alla francese, o imitando le cantilene di Gilberto Govi. Sfoggiano con vanità vocaboli desueti come "mandillo" "ghirindun" "macramé" (fazzoletto, comodino, asciugamani). Non solo i poeti dialettali tengono a portata di mano il dizionario italiano-genovese per rinfrescarsi la memoria.

Nella città insieme al dialetto sono spariti anche gli imponenti cavalli normanni che trainavano i pianali per movimentare le merci del porto quando non esistevano né container né Carterpillar. Ma questi sono cambiamenti minori, necessari, imposti dal progresso. La peggiore brutta rimozione è quella culturale. Genova è rimasta bloccata, chiusa in se, per tutto il ‘900. E ha dimenticato di essere stata la secolare e gloriosa Repubblica di San Giorgio con una capacità di autogoverno che potrebbe fare testo alle mezze calzette di oggi.  Caro amico Tenorio: quando osservo i grandi palazzi del centro storico (le vestigia che i Dogi ci hanno lasciato) e li confronto alle opere pubbliche odierne il cuore mio piange dalla delusione!

Genova, dopo i fasti dei secoli della Repubblica e quelli della prima rivoluzione industriale, quando l’opera degli Ansaldo la fecero chiamare la Manchester d’Italia; è stata corrotta dalle prebende romane delle Partecipazioni Statali, e dal gretto corporativismo medievale delle compagnie portuali. Genova si è spenta nel secondo dopoguerra governata da una squallida classe dirigente dovuta ad una distorta selezione degli amministratori scelti sull'ideologia e non sulle capacità manageriali. Corollario negativo fu il conseguente, piccato, abbandono, vera diserzione, delle grandi famiglie di armatori e industriali. Così Genova negli importantissimi 50 anni di vita dal boom economico degli anni ’50 alla new economy  non ha voluto né saputo rinnovarsi. E nel frattempo la politica urbanistica ha deturpato monti e colline di cemento e caos edilizio.

Ma la mutazione più triste è avvenuta nei vicoli, i "caruggi" come si chiamano in dialetto. Essi erano il cuore cittadino. Nel dedalo di viuzze muoveva un formicaio d’artigiani e commercianti; viveva una rete di "scagni", uffici di notai, assicuratori, fornitori e broker; che prendevano luce dai pannelli inclinati alle finestre per risparmiare sulla bolletta dell’Enel. Pulsavano di vita attiva via Luccoli, Canneto il lungo, Orefici, San Luca, Prè… la via del Campo cantata da Fabrizio De Andrè. Ora il baricentro cittadino si è spostato nei nuovi quartieri anonimi di Piccapietra ed ora il centro storico è lasciato alla mercè di spacciatori e travestiti brasiliani. Eppure nel centro storico c’erano le vetrine più belle, i negozi più affollati. Trottman Maison d'Haute Couture, affiancava popolari osterie e rosticcerie dove "carovanae, barcaieu, pescheu, ciattaieu, ligaballe e carenanti" in libera uscita dopo il lavoro andavano a mangiare la panizza e cantare il trallalero.

Oggi restano pochi brandelli di quell'antica civiltà. Già le bombe della seconda Grande Guerra lasciarono ferite ancora da sanare. Macerie lasciate ai topi per decenni quale monumento alla trascuratezza ed alla inefficienza. Abbandono e fatiscenza hanno portato all’esodo dei vecchi abitanti, vera anima cittadina. Così non più trallalleri e ballate popolari ma canti orientali e ritmi balcanici; nenie più consone a dune e minareti che ai muri dell’antica Repubblica Marinara.

 Non che il centro storico genovese in passato fosse immune da atmosfere equivoche come d’altronde ogni angiporto. Ma erano del tipo "Casablanca" non "Fuga da New York". Senza droga né criminalità stracciona, i tranquilli borghesi in abito scuro, dopo lo spettacolo al ‘Piccolo Teatro’ di Ivo Chiesa, potevano scendere senza pericoli da Don Vincenzo, al Trocadero o lo Zanzibar, a gustare la pizza. Compiere un tuffo, innocuo, nella trasgressione. 

Tutto è svanito, dimenticato, come la storia della Repubblica, e dei luminosi secoli "dei" genovesi. Quando nella città lo spirito commerciale fu tale da vendere persino la propria bandiera, croce rossa in campo bianco, al Re d’Inghilterra. E come non ricordare, rispetto all’ignobile attualità; quando le pesanti e sanguinose scorrerie barbaricine dei Mori infestarono le nostre riviere? Sai Miguel cosa fecero i Dogi della Repubblica per affrontarle? Fortificarono la costa, costruirono torri d’avvistamento, mura e castelli. Aiutarono economicamente le città alleate, da Levanto a Nizza, perché anche esse edificassero difese di contrasto ai Saraceni predoni. Allora Francia e Spagna, in lotta per l'egemonia, assoldavano i pirati per danneggiarsi a vicenda secondo la guerra fredda e terrorismo di quei tempi. Godendo di protezione i mussulmani arrivavano dal mare e mettevano a ferro e fuoco le località e deportavano gli abitanti per rivenderli nei mercati afro-asiatici di schiavi. Chi riusciva a fuggire sui monti, tornando dopo i saccheggi, trovava morte e rovine. 

A fronte di tanto flagello i governanti, con onestà, competenza e determinazione, articolarono una strategia con varie direttrici: incremento delle torri d’avvistamento per l'individuazione delle navi, costruzione di fortilizi per la difesa dagli sbarchi; allestimento di flottiglie per la caccia ai corsari in mare aperto. Un sistema spionistico nei porti nemici da segnalare e prevenire l'arrivo di questi sugli arenili. Un onere economico da reperire e amministrare per una città-stato che puoi immaginare! Pensa ai costi delle tre magistrature: per gestire la rete spionistica nei porti africani e del medio oriente di segnalazione delle navi saracine in partenza. Per raccogliere i fondi da destinare  alle grandi opere di difesa (pensa al grande Castello di Nizza). Infine la terza, anche essa importante, col compito di setacciare i mercati di schiavi alla ricerca dei rapiti; trattarne l'acquisto o provvedere al riscatto, e riportarli in patria. Uno sforzo economico oltre alla spesa corrente che senza ruberie né malversazioni, il governo genovese affrontò e se ne tirò fuori.

Da studente la generale rimozione delle tradizioni precedenti l’Unità d’Italia, mi fece ignorare tutte queste cose. E’ da adulto che mi sono interessato ed ho cercato libri della storia di Genova. Ho saputo la leggenda di Genua fondata dal figlio di Noè, Iafet, appena dopo il diluvio universale. La storia vera di Genua costruita dai Liguri quando si insediarono quivi provenendo da chissà dove, nel 707 avanti Cristo. Le guerre di conquista dei Romani che non riuscirono ad andare oltre i confini della costa. Poi la città divenne stato nel 900' dopo il crollo dell’impero romano d’occidente.

Da questa data all’annessione nel Regno di Piemonte passano mille e seicento anni! Storia di vittorie e sconfitte, conquiste e distruzioni. I Romani l’avevano conquistata due secoli prima della nascita di Cristo. Fatta base d'appoggio dell'Urbe per le flotte in rotta verso le Gallie, durante la seconda guerra punica, fu abbandonata e lasciata distruggere dal passaggio di Annibale.  Ricostruita per ordine del senato restò perla della "pax romana" fino alle invasioni dei barbari che di nuovo la saccheggiarono e rasero al suolo nel 538'. Ancora ricostruita, l'ultima distruzione fu opera di Rotari nel 641'. Da allora, emancipata da ogni soggezione, autonoma politicamente, Genova attraversò il più bel periodo della sua storia. "El siglos de los genoveses" – come li ha illustrati una recente mostra di Palazzo Ducale - sono quelli che vanno dal 900'  al 1700. Secoli in cui malgrado guerre con Pisa, Venezia, Milano; l’ostilità di Francia, Spagna e Austria; furono caratterizzati di grande splendore e prosperità. 

Il genovese, lo dico a te che non conosci le nostre dicerie, è tacciato di spilorcio, avido del denaro come il personaggio di Moliere. Ma ti posso dire che in verità, il genovese, più che dei soldi è avaro di sé. Cioè non si concede al prossimo tanto facilmente. Lo chiamano "orso" poiché è scostante. Ma si fa tale per non essere condizionato dall’amicizia, dai favori, da tutte quelle cose che legano agli altri e limitano la sua indipemdenza. L’indole è connaturata agli uomini di mare abituati a stare soli e rendersi autosufficienti spiritualmente e materialmente. Immensità oceaniche e spazi esigui; silenti orizzonti e declivi chiusi e scoscesi hanno plasmato il carattere dei genovesi. "Terra senza alberi, mare senza pesci, cielo senza uccelli. Neppure la polvere voglio portare con me” disse Dante spolverandosi le scarpe varcando il Magra di ritorno dall’esilio. Ma l’Alighieri era notoriamente di brutto carattere, e facile invettiva. Rende giustizia la penna gentile dei Cardarelli, Sbarbaro e Montale alle genti, chiese e cimiteri liguri "come navi in attesa del varo". 

Si, mio caro amico messicano, anche da noi i tempi cambiano. Meno male che nelle soglie del 2000  l’uomo riscopre se stesso. Auguriamoci che a Genova, come a Città del Messico, abbandoni la follia autodistruttiva che ha infuriato in tutto il secolo precedente.
Ciao, amico mio. Hasta a la vista!
Pier luigi Baglioni



 
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Data di pubblicazione 4/9/2000 
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